Insalata

in questa pagina parlerò,insieme a voi,delle tradizioni culturali e popolari a livello mondiale.
Sono rimasto molto affascinato delle tradizioni e del modo splendido che hanno di accogliere un turista venuto da fuori,quando sono stato in Africa.


Gente meravigliosa,con la quale,grazie all'aiuto di un mio caro amico che conosce molto bene le lingua,abbiamo intrapreso un dialogo MERAVIGLIOSO e da li ho capito quanto realmente questa gente sia così sfortunata ma fortunata allo stesso momento.

Secondo un’antica tradizione latina gli Hirpi Sorani, presumibilmente sacerdoti del Monte Soratte, appaiono come lupi del monte, in rapporto ad una leggenda secondo cui assunsero pelli e modi di lupi per liberare il loro paese dai miasmi che vi erano restati dopo che branchi di lupi avevano assalito gli altari sacrificali di Dis Pater, il re dei morti, e ne avevano sottratto brani di carne.


La storia:


Nonostante la tradizione di sobrietà, quando nel 1574 Enrico III di Francia, figlio piuttosto bizzarro di Caterina de’ Medici, decise con pochissimo preavviso di passare una settimana a Venezia, la Serenissima non badò a spese. Era il mese di luglio in cui si succedettero gite sul Bucintoro parato a festa e una fiabesca regata notturna a cui il re assistette dal balcone di palazzo Foscari, mentre le imbarcazioni illuminate filavano lungo il canale; al Lido il re cantò il Te Deum sotto un arco trionfale disegnato dal Palladio e decorato da Tintoretto e Veronese.
I festeggiamenti culminarono la domenica in un banchetto offerto nella sala del Maggior Consiglio, dove Enrico III fu accolto dalle duecento più belle patrizie di Venezia vestite di bianco e coperte di gioielli. La tavola si presentava ornata di sculture di zucchero progettate dal Sansovino: c’erano due leoni, una regina a cavallo fra due tigri e Davide e San Marco tra immagini di re e papi, e animali, piante, frutti. Erano di zucchero la tovaglia, il pane, i piatti e le posate.
I viaggi transoceanici, intrapresi per facilitare all’Europa l’approvvigionamento delle spezie, che erano l’altra fonte delle ricchezze veneziane, inondarono il mercato al punto che i prezzi crollarono. Dal ‘600, con la volubilità con cui i ceti elevati trascurarono i prodotti divenuti comuni, la gastronomia dotta, dopo secoli di abuso, abbandonò rapidamente il consumo di pepe, zenzero, cannella, noce moscata, cardamomo, chiodi di garofano. Per Venezia e le altre città marinare del Mediterraneo era l’inizio del declino economico.
Il Rinascimento nel campo della civiltà della tavola ebbe il merito di aver creato una nuova varietà di cotture, il trionfo delle marmellate, confetture e pasticcini e di aver valorizzato alcuni ortaggi sulle mense ufficiali. Dall’Italia stava conquistando l’Europa un’inedita attenzione alla pulizia e alle buone maniere, raccomandata da una serie di trattati – celebre il Galateo di Monsignor Della Casa – che ovunque ingentilirono i costumi; di questo nuovo saper vivere faceva parte l’uso della forchetta, attestata nella penisola tra le consuetudini della borghesia fin dal Trecento: la nomina Franco Sacchetti in una delle sue novelle; a fine secolo Margherita Datini, la moglie del famoso mercante di Prato inventore della cambiale, ne inventariava dodici d’argento tra i suoi beni.
Di serbare memoria dei pranzi dei potenti si è incaricata la storia, ma dell’evolversi della cucina popolare le tracce vanno ricercate nella letteratura: secondo il Baldus e le Maccheronee di Teofilo Folengo, nel Mantovano ai primi del Cinquecento la gente cucinava polente di farina di castagne e zuppe di pane, di fagioli, di ceci e di piselli; nei giorni di festa usava fin da allora la mariconda, un impasto di pan grattato, uova e formaggio cotto nel brodo a cucchiaiate. Erano popolari lasagne e pappardelle, taglierini, gnocchi e maccheroni. Cibi semplici, nel complesso nutrienti, tra i quali però non compare la carne, presente con tanta monotona dovizia sulle mense signorili.
La scoperta dell’America (1492) aveva già fatto all’Europa i suoi doni, ma dovrà passare ancora molto tempo prima che a trarne vantaggio sia la gente del popolo. A diffondersi subito sulle mense dei ricchi fu il tacchino che a detta di Bartolomeo Scappi il duca d’Este allevava tra gli animali rari ed era considerato un pregevole dono di nozze.
Fin dal suo primo ritorno in patria avvenuto nel 1493 Cristoforo Colombo aveva portato con sé alcuni chicchi di mais, il cereale americano a rapida crescita ed elevato rendimento che si diffuse intorno al 1530 nel Veneto, nel Mantovano, nel Polesine da dove giunse in Italia meridionale. Dovunque fosse piantato, insieme al fagiolo americano ricostituiva la fertilità del suolo, allontanava per i contadini lo spettro della carestia; eppure dopo i primi successi la sua diffusione si fermò: soltanto alla fine del Seicento gli altri paesi europei vinsero la loro diffidenza e adottarono la polenta come cibo quotidiano.
La patata subì più o meno lo stesso destino: studiata con interesse dagli agronomi negli orti botanici, ebbe fortuna inizialmente soltanto nelle campagne spagnole e italiane.
Ebbe invece rapido successo il pomodoro, che insieme al peperone fu accolto trionfalmente nella cucina popolare spagnola che lo diffuse nelle classi meno abbienti di tutti i paesi. L’uso più diffuso e pregiato del pomodoro è certamente quello relativo al condimento per la pasta secca che pare provenga dalla Sicilia già nei primi decenni del 1600. È avvalorata infatti la tesi che furono i facchini del porto di Trapani gli artefici del più importante matrimonio avvenuto nella storia della gastronomia, quello della pasta secca e del pomodoro, facendo cuocere i maccheroni e gli spaghetti in acqua bollente e mettendovi sopra il pomodoro a pezzi.
Mezzo secolo dopo in Campania si coltivano i pomodori per la “pummarola”. Alla fine del Settecento i “vermicelli” con la “pummarola ‘n coppa” diventano il piatto venduto per strada che sfama la popolazione. Nasce l’età della pasta ed essa acquista una sua definitiva immagine.
A proposito della pasta secca ricordiamo che già nel 1400 è entrata nell’uso dell’Italia del sud, ma, lungi dal dominare la scena alimentare, continua a essere un cibo occasionale. Fino al Seicento i napoletani erano conosciuti come “Mangiafoglie” perché il loro cibo base erano gli ortaggi. Infatti a Napoli i “vermicelli” arrivarono nei vicoli del 1647, dopo la rivolta di Masaniello: da allora i napoletani diventarono “Mangiamaccheroni”.
L’Italia mantenne fino agli albori del 1600 il primato dell’arte della cucina in Europa che nel corso di questo secolo passò alla Francia non senza qualche debito verso il nostro paese.
È risaputo infatti che Caterina de’ Medici, sposando nel 1533 il delfino Enrico, diffuse in Francia le conquiste della gastronomia italiana e le basi della civiltà della tavola. È giusto anche ricordare i festeggiamenti per le nozze di Maria de’ Medici col re Enrico IV che durarono vari giorni nei quali fu offerto un banchetto tanto ricco di trovate scenografiche da far sospettare al nunzio papale qualche intervento diabolico.








Ma nel corso del XVII e XVIII secolo con la scomparsa delle signorie e delle corti la cucina italiana perde la sua importanza e la sua fama; l’epoca dei ricettari nazionali sembra terminata. Il progetto di dar vita a una sintesi della cucina italiana – che soprattutto Scappi, ma non lui solo, aveva perseguito – lascia il posto a una progressiva accentuazione delle diversità regionali. Ovviamente tali diversità costituivano anche prima un elemento visibile del panorama gastronomico della penisola; ciò che cambia è che i ricettari enfatizzano questo punto di vista, collocandosi sul piano geografico in modo assai più netto di quanto non avvenisse nei testi medievali e rinascimentali. Questo cambiamento di prospettiva emerge soprattutto nella trattatistica di produzione napoletana, attraverso la quale, per la prima volta, si definisce un quadro compiuto del patrimonio gastronomico del Sud. Autori come Giovan Battista Crisci, che nel 1634 pubblica a Napoli la Lucerna de corteggiani, ampia raccolta di menù per i vari periodi dell’anno, o Antonio Latini, autore dello Scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, due volumi pubblicati anch’essi a Napoli nel 1692-94, sono particolarmente attenti a comunicare la loro “appartenenza” culturale e territoriale.
La Lucerna di Crisci è il primo vero repertorio di prodotti e specialità del Centro-Sud. Non tanto Napoli, riferimento “simbolico” anche per gli autori del Nord, quanto una miriade di città, cittadine e centri agricoli sparsi nel territorio sono i luoghi cruciali di un’immagine gastronomica decisamente nuova.