Paccheri

Girando sul Web mi sono imbattuto in un articolo che parla della storia della cucina Italiana argomento tra l’alto a me sempre un po caro …

e mi sembrava interessante riproporlo come nozioni storiche abbastanza interessanti

spero di fare cosa gradita ma soprattutto  siccome nel gruppo abbiamo anche illustri studiosi di Storia della gastronomia mi piacerebbe che magari qualcuno arricchisca l’argomento con qualche illustre commento così da poter approfondire il discorso

La storia della cucina italiana 

I Romani, nostri progenitori, durante la curva discendente del loro potere che in Europa si concluderà con la caduta dell’impero romano d’occidente (476 d.C.) vivevano il banchetto come un lungo momento di rilassatezza in cui spilluzzicare complicate vivande (lingue di fenicotteri, fegato di animali e uccelli rari) ricoperte di costosissime spezie tra gli accordi delle cetre e le melodie dei flauti; questo per i rappresentanti del potere che si stava autodistruggendo mentre il popolo e gli schiavi dovevano arrangiarsi con gli avanzi o nutrirsi principalmente di ortaggi ed erbe.
Con le invasioni barbariche parve distrutta ogni tradizione culinaria e alimentare tanto che quando nel 569 arrivarono dalle Alpi i Longobardi di qualunque pasto gastronomico si era perso anche il ricordo.
Vicende diverse toccarono alle zone periferiche del nostro paese, soprattutto alla Sicilia che dal secolo IX iniziò ad essere colonizzata dagli Arabi che influirono notevolmente sulla cultura e sugli usi degli isolani. Venne ad esempio introdotta la pasta secca (nata probabilmente come alimento per le popolazioni nomadi arabe per la sua facilità di conservazione) e qui trovò le condizioni favorevoli per il suo sviluppo e la sua diffusione verso Genova, Napoli, la Francia, la Spagna.
Sarà la cultura del cristianesimo e della chiesa cattolica a riconsiderare i piaceri della gola avvertendoli come una colpa legata indissolubilmente alla sessualità: il peccato di Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre era un peccato di orgoglio, ma coinvolgeva una donna e si era concretizzato nell’atto di mangiare. La perfezione spirituale passava dunque attraverso l’astinenza alimentare e soprattutto attraverso la privazione della carne. Fino al Mille le diete dei monasteri si limitavano a pane e legumi, con uova e formaggio nei giorni consentiti e qualche frutto di stagione. La rinuncia alla carne era legata da un lato al rifiuto della violenza che si esercita nell’uccisione degli animali, dall’altro alla tutela della verginità che i cibi più energetici potevano mettere in pericolo.
Fu dall’epoca di Carlo Magno che il dilemma di conciliare le crapule di romana e barbarica memoria con le privazioni degli asceti cristiani fu risolto: digiuni e astinenze si alternarono ai giorni di festa in cui anche per il potere religioso il pasto abbondante e variato era dovuto a Dio come forma di rispetto e preghiera: il piacere della tavola, cioè il piacere terreno coincideva nei giorni festivi con quello spirituale e religioso. E così la vita nei monasteri mutò attraverso l’abbandono dell’ascetismo totale perché nel corso dell’anno parecchie furono le occasioni in cui la tavola imbandita era considerata luogo di preghiera. Parallelamente nei castelli medioevali organizzati in feudi si andava allargando il numero delle persone che potevano mangiare regolarmente perché prestavano i loro servizi al sistema economico autarchico medioevale (artigiani, domestici, ecclesiastici, armigeri).
Certo in epoca medioevale non si può parlare di gastronomia: fino al momento in cui in Europa il rinascere della vita cittadina porta, in Italia prima che altrove, a un raffinamento dei costumi, i festini medioevali appaiono più affini alle barbariche ammucchiate alimentari che a creazioni armoniche.
Fu nel Duecento, col rifiorire della vita cittadina, con l’intensificarsi dei traffici in seguito alle crociate, con la formazione dei primi nuclei produttivi sui quali si svilupperà poi la borghesia che trovò attenzione e legittimazione la ricerca dei piaceri della tavola: la gastronomia tesa a corteggiare il gusto, a sensibilizzare il palato, recuperò alcuni modi di cottura nel forno o nei tegami posati su ricettacoli di braci nell’angolo del camino. Rinacque l’arte antica degli umidi e delle salse e l’uso di travestire i cibi e di presentare gli uccelli in tavola adorni delle loro penne. La ripresa delle antiche tradizioni a lungo dimenticate coincise con l’introduzione di nuovi elementi alimentari che arricchirono la tavola dei signori: spezie e zucchero di canna che gli Arabi coltivavano da tempo in Sicilia e che si diffuse sostituendo il miele e consentendo l’invenzione dei confetti che chiudevano ogni convito importante come il più sicuro segno di distinzione.



In Italia fu la Toscana la regione in cui si svolse il rinnovamento che caratterizzò l’arte della cucina nel corso del XIV secolo, quando il passaggio dalla cucina popolare alla sperimentazione di una gastronomia che si sarebbe imposta a tutta Europa fu elaborata dalla classe alto-borghese che aveva realizzato le fortune economiche delle città.
Le condizioni ambientali, sempre più favorevoli da quando Matilde di Canossa e in seguito i Comuni avevano dato inizio al terrazzamento dei rilievi e al controllo della rete idrica, fornivano la regione di eccellenti materie prime: l’olio delle colline senesi e fiorentine, i piselli e i cavoli di Lastra a Signa e Scandicci, gli agnelli del Casentino, i vitelli della Val di Chiana, le triglie del Tirreno e i lucci del lago di Chiusi. Tutto si comperava al Mercato Vecchio di Firenze, dove si davano convegno anche i venditori ambulanti del contado che recavano ceste di uova, cacio e selvaggina.
Nel Chianti si produceva già un buon vino vermiglio, erano noti il Montepulciano e il Montalcino e dall’isola d’Elba proveniva un nobile Aleatico. Era particolarmente ricercato il pane di Prato, che ispirò ai cuochi dei conventi un pane raffinato addolcito col miele e profumato di spezie, condito di fichi secchi e acini d’uva; fu l’antenato del panforte di Siena e probabilmente anche del panettone milanese, che divennero i dolci tipici del Natale. Fino al Duecento anche nella cucina toscana imperversarono le spezie e dilagò molto presto la moda dei confetti, destinati per il loro costo alle occasioni importanti.
Le famiglie della borghesia delle origini, non disponendo ancora di palazzi col salone di ricevimento, facevano festa nelle strade: si disponevano lunghe tavole sotto una tettoia di tela che proteggeva dal sole; foglie, fiori e tappeti rivestivano i muri, e all’aria aperta si servivano pranzi che nel Trecento erano già variati.
Ogni famiglia toscana benestante del Trecento apparecchiava per gli ospiti con tovaglie candidissime e disponeva di piatti e boccali d’argento, di bicchieri d’argento e di vetro e di saliere smaltate; con i taglieri finemente incisi, i candelieri, le confettiere, i bacili per lavare le mani, gli oggetti più preziosi facevano bella mostra sull’alzata della credenza nella stanza principale.


 Bellissimo


A differenza che altrove in Toscana si teneva molto alle buone maniere; l’unica deroga era il vino che, nei periodi di epidemie che in quel secolo infuriavano, era concesso bere a garganella come antidoto e narcotico; anche le belle fanciulle e i distinti giovani che raccontano le novelle del Decamerone, tra le confetture e i pasticcini delle loro aristocratiche merende, qualche bicchiere di vino se lo concedono spesso.
Oltre che nei palazzi anche nei monasteri i rigori digiunatori nel 1400 erano un ricordo: la Chiesa, e soprattutto la corte papale, aveva accolto di buon grado la tendenza di onorare Dio a tavola: il peccato di gola non appariva più a nessuno tanto spaventoso. Le cronache del 1500 e del 1600 riportano il racconto di una serie di banchetti per ricevimenti ufficiali di un lusso inaudito in cui centinaia di portate diverse si alternavano a musiche, canti e balli. Mentre truppe mercenarie francesi, tedesche, spagnole percorrevano a ondate la penisola saccheggiando e devastando, le corti rinascimentali di Milano, Ferrara, Firenze, Mantova, Urbino, la Serenissima Repubblica di Venezia, la Roma papalina di Michelangelo e Raffaello gareggiavano per lo splendore dei palazzi, la magnificenza delle collezioni d’arte e la messinscena dei pubblici festeggiamenti. Un matrimonio, la visita di un sovrano straniero, la conclusione di un trattato erano l’occasione per organizzare davanti alla meraviglia dei sudditi sontuose processioni per la città: a Milano archi trionfali e quadri viventi erano progettati da Leonardo; Lorenzo il Magnifico disegnava a Firenze scene e costumi per i carri allegorici. Di ogni festa la conclusione solenne era il banchetto, i cui resti, specie dolciumi, era consuetudine distribuire ai cittadini.
La fantasia non aveva limiti: nel 1595 il cardinal Grimani a Roma a Palazzo Venezia offrì un convito agli ambasciatori della Serenissima, che furono accolti con pifferi e tamburi. Le trombe introdussero conserve e confetture, mentre piatti d’oro e d’argento colmi di biscotti e pinoli apparvero al suono delle arpe. Dopo una zuppa di latte e vassoi di teste di capriolo, le tube annunciarono sessantaquattro portate di polli in salsa catalana, e i piatti degli arrosti e dei fagiani volteggiarono in sala sulle armonie delle viole. Col dessert di panna montata e marzapane si accompagnarono le danze di una giovane araba e una più ingenua recita di bambini.
Il 13 settembre del 1513 la Roma di papa Leone X Medici, noto buongustaio, festeggiò la nomina a patrizio del nipote Giuliano con un banchetto solenne in Campidoglio. La tavola, che accoglieva venti sceltissimi convitati, troneggiava su un soppalco al centro della piazza, mentre intorno era stata eretta una gradinata a semicerchio per la folla che assisteva allo spettacolo. Quando, al passaggio dei bacili di acqua odorosa, gli ospiti dispiegarono i tovaglioli bianchissimi per asciugare le mani, si liberò nell’aria un volo di uccelletti svolazzanti. L’abbondanza era tale, narrano i cronisti, che i convitati presero a gettarsi l’un l’altro le portate, e infine si videro capretti e fagiani, porcellini e pernici volare verso le tribune e insozzare la piazza.
Ottant’anni dopo, nel maggio del 1593, come racconta lo scrittore gastronomo Vincenzo Cervio ne Il trinciante, accogliendo i figli del duca Guglielmo di Baviera Roma rinnovò, erano anni molto difficili, i fasti trascorsi. Anzi li superò, perché alle mille persone ammesse in Castel Sant’Angelo la tavola d’onore apparve, tra gli stemmi del pontefice e dei principi tedeschi, letteralmente coperta d’oro e perle si alternavano a quattro fagiani dalle penne tempestate di gocce d’oro tremolanti e a tre leoni di pasta reale dorata; dorati erano pure i pasticci freddi a forma di aquile, leoni e tigri. Al termine del pranzo fu portato in sala un modello in pasta di Castel Sant’Angelo, da cui uscirono pernici e uccelletti vivi che reggevano sul capo coroncine d’oro e dietro a loro apparve un toro meccanico, ovviamente dorato, che camminava da solo.
È evidente che la gastronomia di questi esibizionisti conviti romani non perseguiva un ideale di creatività, ma perpetuava l’assillo medioevale dell’ammucchiata alimentare al fine di esorcizzare, in un crescendo liberatorio di segni dell’abbondanza, la fame delle carestie sempre in agguato.
In più c’era desiderio di ricollegarsi anche a tavola al mondo classico, alla Roma imperiale, ai folli conviti di Nerone ed Eliogabalo, alle messinscene del Satyricon di Petronio.
La corte di Napoli e quella di Urbino esibivano come Roma, attraverso gli effimeri splendori del banchetto, la magnificenza dei loro signori, ma altre corti perseguivano con stile diverso la politica d’immagine.
Tali esagerazioni infatti non furono mai condivise dai Medici signori di Firenze di origine borghese: piuttosto che stupire i propri sudditi con allestimenti di dubbia eleganza i Medici preferivano coinvolgerli con garbo nei loro festeggiamenti. Basti ricordare che nel giugno del 1469, in occasione del suo matrimonio con Clarice Orsini, Lorenzo il Magnifico fece distribuire ai fiorentini dal palazzo di via Larga gli ingentissimi doni alimentari che aveva ricevuto; il giorno della cerimonia non furono elargiti al popolo degli avanzi, ma 1.500 taglieri di gelatina e polli, pesci, confetti e altre ghiottonerie appositamente confezionate.
Ai conviti della famiglia Medici erano di rigore le buone maniere e la più assoluta pulizia; i vasi, i candelabri, l’argenteria erano scelti per il loro valore artistico; in controtendenza rispetto alle altre corti, i cuochi dei Medici diretti dalle padrone di casa non si sbizzarrivano in artifici sgradevoli al palato, ma utilizzavano rigorosamente i prodotti genuini della regione per piatti della tradizione toscana, spesso di sapiente derivazione popolare.
Lorenzo era personalmente piuttosto sobrio e nelle sue ville di Fiesole e Poggio a Caiano gradiva gustare con gli amici le lepri dei suoi boschi e il formaggio di fattoria. Proprietario di enormi possedimenti terrieri amministrati dalla madre Lucrezia, dava ai concittadini un esempio di sagace conduzione; le sue riserve erano continuamente ripopolate di fagiani e pavoni e le peschiere di pesci.
Dopo la parentesi del Savonarola e dell’esilio, i Medici ripresero nella reggia di palazzo Pitti col titolo di granduchi la tradizione di eleganza. Nella loro gastronomia d’avanguardia, legata alla tradizione locale interpretata dai cuochi professionisti, emerge la ricerca di un’alternanza di gusti e la cura della genuinità dei cibi.
Un’altra corte della quale abbiamo testimonianza è quella degli Estensi a Ferrara di cui ci ha tramandato testimonianza Cristoforo Messisbugo nel suo trattato Banchetti, composizione di vivande et apparecchio generale. Egli era un gentiluomo e un dotto umanista. Per opera sua la corte di Ferrara si creò in Europa la fama di polo artistico e i suoi principi ebbero una meritata fama di mecenati. Intorno al cibo la corte ferrarese organizzava per gli ospiti spettacoli globali di livello eccelso: al banchetto del 24 gennaio del 1529, in occasione delle nozze del principe Ercole con la figlia del re di Francia, presenti Isabella d’Este Gonzaga e ambasciatori francesi e veneziani, il culmine della festa fu la rappresentazione della Cassaria dell’Ariosto.
Il Messisbugo è ritenuto anche l’abile codificatore della cucina settentrionale basata sul burro in contrapposizione a quella tosco-meridionale dell’olio d’oliva. Inoltre egli riesce ad armonizzare bene le vivande dei banchetti. Nelle sue proposte rivela una certa attenzione per verdure crude e salumi; alterna con sicurezza le carni e i pesci, varia i fritti e i carpioni, le cotture in graticola e gli stufati; usa con disinvoltura la pastasciutta, specialmente i tortelli ripieni in vario modo. È dei vini un attento conoscitore. Consiglia un uso molto diffuso di zucchero, cannella, pinoli e uva passa sparsi un po’ ovunque che rivela il gusto per l’agrodolce proprio del Rinascimento quando lo zucchero era privilegio dei ricchi.
Ferrara è poco distante da Venezia che deteneva il monopolio dello zucchero fin dai tempi delle crociate; lo importava dall’Oriente e lo produceva a Candia rifornendo tutta l’Europa; la sola Lombardia ne comprava per 85.000 fiorini l’anno.
Nel ‘500 Venezia non aveva ancora sviluppato la gastronomia per cui più tardi andrà famosa; il doge pagava di tasca propria cinque banchetti solenni ogni anno, ma nella sala del Maggior Consiglio lo spettacolo più ammirato era quello dell’apparecchiatura della tavola, a cui sedevano di diritto i membri del governo, il nunzio apostolico e l’ambasciatore di Francia: sui preziosi pizzi veneziani scintillavano i vetri di Murano e gli argenti cesellati; pasticcini, confetti e canditi erano così abbondanti che gli ospiti venivano invitati a portarli a casa.







































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